Nella conversazione a braccio con Pasquale Piccolo intuisco che posso trovare elementi importanti sui primi anni lungo i quali nella sua famiglia, come in ogni famiglia, si comprendono le strade che si vorrebbero percorrere. Chissà se, data la vicinanza d’età tra Michele (classe ‘48) e Pasquale Piccolo (classe ‘51), quest’ultimo poteva intuire il talento del fratello maggiore quando i segni erano ancora pochi date le loro giovani età.

«Qualche segno c’era stato però. – afferma Pasquale Piccolo. Tuttavia non potevo immaginare che Michele arrivasse a questi livelli. Però qualche segno c’era. Quando Michele ha iniziato questo cammino, dando una svolta all’attività di famiglia, capitò un fatto che avrebbe potuto cambiare il corso delle cose. Anche lui era stato tentato dalla decisione di arruolarsi all’Alfa Sud che, a quell’epoca, sembrava la soluzione di tutti i problemi. Ne parlammo insieme ed io, istintivamente, mi resi conto che non era il lavoro per lui. Eravamo agli inizi degli anni settanta.
Michele, di certo, fece la sua scelta non perchè l’abbia consigliato io. Diciamo però che io ho contribuito a distoglierlo dall’Alfa Sud quando chiese a me, come ad altri, se era più giusto accettare l’ingresso nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, avendo la sicurezza dello stipendio mensile, o accettare un mestiere in proprio che non ti poteva garantire nessuna certezza. È il rischio di tutte le attività commerciali che possono andar bene ma possono anche andar male. Esse danno più soddisfazione ma richiedono più impegno, un amore per il rischio e la sicurezza in se stessi. Michele la tentazione pure la ebbe essendo spinto in questo da mia madre che sarebbe stata più tranquilla e da mio padre che si sarebbe tolta una preoccupazione con il posto fisso del primo figlio all’Alfa Sud con il quale, come si pensava all’epoca, ci si sarebbe «sistemati». Ma qualcuno, già dopo pochi anni di lavoro, arruolato in quel contesto dell’Alfa Sud, poi cambiò idea.
Io avevo capito che Michele, per il lavoro che faceva, sicuramente non avrebbe avuto problemi a guadagnarsi lo stipendio perché il lavoro lo sapeva fare.
Si vedeva già che non aveva preoccupazioni per le innovazioni e sapeva osare. Per esempio, Michele convinse mio padre a comprare già il cosiddetto muletto e quindi a ridurre il lavoro. Aveva già un atteggiamento positivo verso le macchine che ti velocizzano il lavoro e che, alla fine, ti garantiscono anche un profitto. Mio padre, invece, era del parere di non cambiare la via vecchia per la nuova, perché si è fatto sempre così e si doveva continuare a fare così. Ci fu il cosiddetto scontro generazionale e, giustamente e per fortuna, mio padre ha perso quello scontro poiché era giusto così. È giusto che il giovane riesca a vivere i suoi tempi e a poter dimostrare se quello che vuole fare può dare frutti migliori
».


Già, è lo scontro tra il tempo vecchio e quello nuovo: due visioni diverse e contemporanee che i viaggi, in posti diversi del mondo, potevano mettere assieme già allora. Pasquale Piccolo aveva fatto viaggi di studio mentre si laureava in lingue straniere ed il confronto con il quartiere periferico di Sant’Anastasia, dove Michele Piccolo stava decidendo di giocare tutta la sua sfida, veniva quasi naturale.


«Per me, all’epoca, era impensabile copiare i modelli che avevo visto, per esempio, a Parigi con i negozi Lafayette. Era qualcosa che si riteneva irraggiungibile. Michele comunque ci ha provato e ha iniziato con la piccola dimensione. E, forse, la grandezza sua sta in questo: gestire bene i capitali. I suoi capitali sono cresciuti insieme alla sua esperienza. Chi non ha confidenza con i soldi, che sono solo strumenti di lavoro… se diamo dieci milioni di euro ad una persona che non sa come gestirli sicuramente non ottiene nessun risultato. Quindi io credo che la grandezza di Michele è stata quella di crescere in esperienza e in capitali parallelamente. Così ha iniziato con trecento metri quadrati. Già all’epoca, per qualche tecnico, tipo un tecnico in economia aziendale, riteneva che in una zona come questa un supermercato non avrebbe potuto avere successo perché era fuori da ogni logica. Invece Michele ha valutato subito la necessità di un parcheggio perché la gente si muoveva con le macchine e quindi in un centro urbano già la difficoltà del parcheggio si sentiva. Lui ha intuito che cosa volesse la gente in quel momento creando un supermercato fuori mano che, secondo le logiche di quel momento con la motorizzazione di massa che aveva già coinvolto tutti, era giusto creare poiché la spesa non la faceva più la signora sotto casa al corso ma era accompagnata in macchina dal marito e quindi c’era bisogno di un parcheggio. Da questo punto di vista Michele è stato intuitivo e ha capito prima che accadesse quello che sarebbe accaduto. Così Michele è stato sostenuto anche dal suo successo con i risultati che gli hanno dato ragione. Sicuramente i problemi e le batoste le ha avute anche lui però con l’esperienza ha potuto superarle arrivando dove è arrivato».

Nella foto Salvatore Piccolo all’anagrafe Ciro

Con Salvatore Piccolo, invece, avevo parlato poche ore prima nell’ufficio del quartiere Starza a Sant’Anastasia. Nato nel 1960, Salvatore è all’anagrafe Ciro Piccolo ma tutti in famiglia, e fuori, da sempre lo hanno chiamato Salvatore. È l’ultimo dei cinque figli ed è quello che venne raccomandato a Michele dalla loro madre poco prima di morire. Insieme a Michele, Salvatore Piccolo ha vissuto gli anni della salumeria di via Rosanea e anche l’apertura del primo supermercato nel 1987 fino alla sera del 28 settembre 1988 quando ci si divise in due ragioni sociali e l’assenso dei due fratelli.
Da allora ad oggi, tuttavia, Salvatore non ha mai perso di vista il fratello maggiore e lo stesso è stato per Michele che ha seguito le vicende lavorative di Salvatore riaprendogli, in un momento delicato e difficile nel percorso del fratello più piccolo, le porte del suo percorso d’impresa che Michele aveva fatto ripartire, da solo, la mattina del 29 settembre del 1988. Un legame intenso che non passa per molte parole ma che ha la stessa profondità dei legami familiari che Michele Piccolo ha mantenuto con l’altro fratello e le due sorelle Giannina e Teresa.
Me lo conferma lo stesso Salvatore Piccolo nella risposta cardine di tutto il nostro incontro.

«Sicuramente un po’ tutti noi della famiglia, quando ci poniamo la domanda su chi sia stato il nostro comune punto di riferimento, la risposta viene un po’ naturale perché, l’ho già detto prima, quello che ha fatto le funzioni da genitore per tutti quanti noi, è stato Michele. Ma non perché mio padre non ha coperto questo ruolo, per negligenza o quant’altro. Piuttosto perché, magari ad una certa età mio padre preferì agire un po’ più in solutdine. Nel senso che prese un’atteggiamento più introverso. Iniziò a darsi di più all’agricoltura con un fondo presso il quale per arrivare doveva percorrere settanta, ottanta chilometri. Mi ricordo… ero ragazzo e mio padre per settimane intere non c’era. E, quindi, ovviamente abbiamo vissuto in un modo forte la presenza di Michele. Lui era un po’ come il padre di famiglia.
Ti dava quegli imput e quei messaggi che tu seguivi. E poi è chiaro che ognuno di noi poteva avere qualche desiderio… volevi comprarti una motocicletta, un’auto oppure ti serviva la vecchia diecimila lire o la mille lire… era lui il punto di riferimento. Diciamo che se vogliamo fare un nome ed un cognome dobbiamo fare il suo nome e cognome.
»

Ritorna, come in altri racconti che ho raccolto in giro, quella stessa inclinazione alla disponibilità che in questi anni Michele Piccolo ha dato di sé. Spesso senza nemmeno saperlo, senza usarlo come materia di scambio, senza metterlo nelle previsioni dei legami che ha costruito: dalla famiglia più stretta e legata di sangue alla «famiglia» più larga che ha voluto, di fatto, originare, a cui ha dato e di cui ha avuto bisogno. Così il cammino dell’impresa Piccolo ha avuto la stessa natura di chi l’ha voluta e guidata in un mescolamento di soddisfazioni ma anche di delusioni più private dei legami umani arrivati in questi anni in vario modo.

(il testo è tratto dal libro “Il manuale del buon lavoratore” di francesco de rosa)