Sarà che di tutte le interviste ufficiali attorno alle cose e alle persone che vivono nel «paese» dei supermercati Piccolo fatte in questi mesi (esperienza unica ed indimenticabile) per la realizzazione di molte cose, l’unica intervista realizzata in audio e in video è stata quella fatta a Michele Piccolo. Convinto in questo dalla certezza di un caro amico romano condivisa sul filo di un telefono vecchio stile. «Caro Francesco, il volto parla assieme alle parole. Parlano gli occhi quando dici le cose. Parla il modo in cui le dici».
Io dovevo capire, oltre le decine di conversazioni fatte in tutti questi anni, come è accaduto ed accade tra due veri amici, due «giovanotti» nati nello stesso paese ed entusiasti, allo stesso modo, della vita, che si raccontano anche le loro vite private, chi è stato e chi è Michele Piccolo e non solo per questo libro nel quale il lettore dovrà capire, per esempio, come si fa a percorrere un così lungo tratto in appena due decenni e com’era quando fece nascere i supermercati Piccolo il suo fondatore?
Se capivo quello capivo anche il carattere e la natura di un’azienda che annovera tutti i numeri di un successo che continua a fare sviluppo.
Lo dovevo fare per la stesura di un libro dedicato per metà alla ricostruzione della storia d’azienda e per l’altra metà alle regole, vecchie e nuove, che la stessa azienda dovrà fornire al suo personale nei prossimi anni e nei prossimi suoi luoghi.
Un portale che stesse nelle occhi di molti e le cui pagine digitali fossero lette dalle persone più diverse. Per riuscire in questo sono partito da altro. Anzi da altri invece di partire subito con quello che ho registrato e visto nel corso dell’intervista audio/video fatta a Michele Piccolo. Ho chiesto a molti di coloro che sono arrivati in azienda negli anni passati da dove venivano e chi erano prima di arrivare qui. Ho chiesto a loro circa i motivi di uno sviluppo che sta nei dati, nei punti vendita, nel numero degli assunti, nella varietà di esperienze e di cose, nel carattere e nello stile di Michele Piccolo, nei gesti e nei convincimenti del più giovane Raffaele Piccolo che oggi affianca il padre alla guida dell’impresa mutuandone il senso d’umiltà, il garbo e molte altre doti che gli saranno preziose negli anni a venire.
Ho profittato della disponibilità dei responsabili di punti vendita ma anche di coloro che guidano uffici importanti come la contabilità, il comparto amministrativo, il personale, la progettazione dei punti vendita, i servizi informatici e molte altre cose di cui un’azienda si compone. Nel corso di tanti incontri/interviste audioregistrate con il loro assenso, ho scavato, spesso senza che nemmeno si accorgessero, tra i risvolti delle loro esistenze, in quel bagliore d’occhi che poteva suscitare una domanda inattesa. Mi sono incamminato dietro i loro racconti d’entusiasmo e passione scrutando le idee che avevano potuto maturare nel corso di questi anni vissuti in nome del loro lavoro e di un’azienda per la quale sono ancora e sempre motivati.
E tutte le testimonianze che ho raccolto, per la redazione di questo libro, sono, in fondo, storie umane di uomini e donne che si sono trovati ad un certo punto della loro vita in un luogo dove c’era e c’è un’azienda nata, di fatto, da un ragazzino che era in una salumeria. Sicchè quel ragazzino è ritornato nei racconti/interviste di tutti coloro che ho ascoltato costringendo il mio racconto ad iniziare proprio da lui. Ho chiamato quell’intervista… la solitudine dei numeri primi.
Michele Piccolo è il primogenito di cinque figli, tre maschi e due femmine nati da due genitori che avevano mescolato i caratteri tipici di un uomo e una donna del sud al paese dei loro natali. In fondo un uomo è anche la sua terra: la porta dentro nei modi, nel carattere, nei vantaggi o negli svantaggi.
Il padre di Michele Piccolo, Raffaele Piccolo, è stato un uomo tenace: un contadino che interpretava le regole severe di quel tempo, il senso alto dell’onore ed il rispetto estremo per chi credeva migliore di lui o, magari, assolutamente irraggiungibile nella scala sociale di un paese piccolo borghese.
Un paese con le sue economie, il suo centro storico, le sue periferie e ancora, in fondo, molto arretrato e tale che considerava gli abitanti del quartiere periferico della Starza cittadini di second’ordine dediti, soprattutto, alla coltivazione della terra.
Dovette costare una grande fatica, all’epoca, abitare in un quartiere di periferia anche a Giuseppina Piccolo che di Raffaele era una moglie mite e fedele come si sapeva vivere la fedeltà coniugale in quegli anni e in certi contesti sociali. Aveva persino lo stesso cognome, Giuseppina, pur non avendo gradi di parentela con il proprio marito. Entrambi crebbero i figli allo stesso modo: la mamma dava dolcezza, incoraggiava, stava vicino ai progetti, al lavoro e allo studio di quei figli.
Il padre dava le regole ed un modo per stare al mondo. Anche quando dovette affrontare un problema di giustizia e un’esperienza estrema che può forgiare ancora di più la vita di un uomo: quando quell’esperienza giunse al termine Raffaele Piccolo mise in piedi, appena dopo gli anni della guerra di metà Novecento, tutto quello che sapeva e doveva fare facendo nascere un esercizio commerciale in via Starza Piccioli quasi ai confini con la cittadina di Pomigliano d’Arco. Il primo figlio di Raffaele arrivò due anni dopo, in quel ‘48 di cui abbiamo detto. Ma l’idea di lavoro e un obbligo al dovere gli furono dati molto presto che oggi fanno ancora presa nel racconto di Michele Piccolo.

«Mi chiedi i ricordi… . Ricordo un padre molto severo, un lavoro tanto diverso da quello di oggi dove si trattavano prodotti alimentari, zootecnici ed agricoli. Un lavoro che aveva iniziato mio padre sin dal 1946. Poi arrivo io e, diciamo, che già nel ‘51 iniziavo il mio lavoro. Quando avevo appena tre anni… può sembrare un modo di dire ma lavoro da quando avevo tre anni ed è proprio così. Mio padre consegnava mangimi e cereali per le campagne in sacchi che poi si riportavano indietro… chiaramente vuoti. Si ammucchiavano in un posto e, successivamente, si faceva la selezione di quei sacchi. Ed io, con i miei tre anni, dovevo aiutarlo. Sarà stato per l’educazione che voleva darmi o per l’esigenza che poteva avere ma io dovevo prendere quei sacchi vuoti da terra e consegnarli nelle sue mani mentre lui provvedeva a selezionarli stabilendo i sacchi da riempire nuovamente di crusca da quelli per la biada.
Ecco, questo era già il mio primo lavoro. Ad esso si abbinavano altri compiti quando si doveva ungere o lucidare i guarnimenti per il cavallo, per esempio.
Io gli dovevo reggere le redini nel frattempo che lui spennellava o lucidava. Questi compiti me li aveva affidati sin dai miei primi tre anni. E così poi, tra un po’ di scuola elementare (solo quella ho fatto) e il pomeriggio libero che lo si doveva dedicare comunque al lavoro e all’aiuto di famiglia passava la mia infanzia. C’era mia mamma che faceva la sua buona parte poichè doveva comunque badare alla bottega, alla famiglia e a tutto il resto. Io ero una sorta di coadiuvante che aiutava a seconda delle esigenze di mio padre e di mia madre. Questo è andato avanti fino al 1960. Nel 1960 mio padre apriva una ulteriore bottega perché quella di via Piccioli venne penalizzata dall’apertura di una nuova strada che era stata aperta da poco e cioè via Rosanea sulla quale, da quel momento, la gente transitava molto di più. Così mio padre volle fare questo esperimento: quello cioè di aprire un’ulteriore bottega nella nuova via Rosanea.
Considerati i miei dodici anni mio padre pretendeva che dovessi essere io a gestire questa nuova bottega. La nuova salumeria era per lui un po’ come un test: quello cioè di aprire questa nuova bottega mentre l’altra, su via Piccioli, era comunque attiva. Se la nuova andava meglio e bene avrebbe indotto mio padre a fare in modo che in questa nuova strada venisse ad abitare tutta la famiglia. La nuova bottega andò bene e così accadde fino al 1980.
Nel 1980 finiva mia mamma ed io rimasi con mio fratello. Mia madre me lo aveva raccomandato, mio fratello Salvatore, che era il più piccolo. Fino ad allora lui aveva già fatto qualche anno d’università ma i risultati non c’erano stati subito. Così per aiutarlo in modo più facile, più semplice e anche più possibile gli feci la mia proposta chiedendogli di mettersi insieme a me. Gli dissi… te ne vieni con me e quello che sarò io sarai pure tu.
Quindi si è lavorato insieme fino al 1988.
L’anno prima nasceva il supermercato che sarebbe poi diventato quello attuale di via Piccioli che oggi si chiama via Del Pruneto. Lo avevo fatto nascere nel dicembre dell’87 volendo evitare a me e a mio fratello di fare lo stesso lavoro ed in previsione di una separazione delle ragioni sociali e delle tipologie di attività. Si sarebbero evitati così anche i dissapori che, inevitabilmente, come accade ovunque, potevano esserci lavorando nello stesso luogo e alla stessa impresa. Non mi avrebbe gratificato avere dissapori con mio fratello che mia madre stessa mi aveva raccomandato quando era più piccolo poco prima che venisse a mancare.
Lui si sarebbe così occupato soprattutto della vendita all’ingrosso che già era bene avviata mentre io mi sarei impegnato nella crescita del nascente supermercato che, aperto nel dicembre dell’87, veniva ufficialmente gestito da me solo dal 29 settembre del 1988 con una nuova ragione sociale. La sera prima avevo definito la divisione d’impresa che avevo avuto fino a quel momento con mio fratello Salvatore. Questa, credo, possa essere considerata come una data storica importante o anche importantissima. Da lì nasceva la sopravvivenza e nella sopravvivenza capii che si poteva andar bene e così pensai allo sviluppo, a migliorare quello che c’era. Certo, neanche io avrei immaginato che si sarebbe potuto realizzare quello che poi si è realizzato né tantomeno posso dire quello che domani si potrà realizzare».
Il racconto che Michele Piccolo riannoda non è fatto solo di lavoro. Ci sono dentro luoghi, affetti, legami umani e privati, pubblici e ufficiali, tutte le radici di una vita che mescola assieme sogno e visione. Nell’intervista che registriamo è tutto a braccio come si dice in gergo di una conversazione/intervista giornalistica dove non ci sono domande già scritte e, chiaramente, non ci sono risposte già pronte. Ma ormai si può dire che Michele Piccolo ha preso dimestichezza con i media e non ha più l’imbarazzo di essere intervistato avendo una telecamera davanti. Gli chiedo dei suoi genitori, dei tempi lungo i quali il papà Raffaele aveva quel timoroso rispetto verso quelli che credeva migliori e irraggiungibili. Gli chiedo della fiducia che potette avere dai genitori quando decise di seguire i suoi sogni. E non si fa aspettare a rispondermi. Sono cose lontane, ormai, ma sono anche ricordi nitidissimi, accadimenti che sembrano di ieri.

«Io ringrazio sia mia madre che mio padre perché, giustamente, ognuno ha fatto la sua parte, ognuno ha dato quello che ha potuto: mia madre in un modo, mio padre nell’altro. Mia madre con amorevolezza e con fiducia. Ella ha creduto in me da sempre. Mio padre ha creduto in me forse quando ha cominciato a vedere qualche risultato o, perlomeno, non me lo ha dimostrato prima. Mia madre, invece, ha creduto in me fino al punto di venire a mettere una firma in banca, di nascosto da mio padre, per farmi avere un fido di due milioni di lire. Certamente non vi era la sicurezza che i risultati potessero essere positivi, ma quei due milioni di lire servivano per lavoro e si sarebbero utilizzati con parsimonia. Mia madre sapeva di questo ma non poteva sapere né lei né io se quell’investimento avrebbe poi portato i risultati. Lei decise di rischiare molto fidandosi solo di me. E intanto è andata bene. Mio padre, con la sua disciplina, il suo lavoro, la sua parsimonia, il rispetto che avuto per gli altri e che gli era ricambiato ha fatto la sua parte. Diciamo che sono state due guide giuste entrambi.
Per quanto riguarda quella che tu chiami la mia umiltà, io, per la verità, non la vedo nemmeno umiltà. Non si è umili perché si vuole essere umili. Si è così e basta. Chi sta di fronte a me, più grande o più piccolo, più ricco o più povero, merita sempre lo stesso rispetto. Questo è un modo di dire, di fare, di pensare e non deriva dal fatto che uno se lo va a studiare ma è nell’indole di ognuno di noi. Io mi sento così perché sono così. Non faccio fatica, non me lo studio questo atteggiamento, non me lo invento né è strategico quindi non è un sacrificio essere così. L’umiltà come pregio è quando uno si impegna ad essere umile. Io sono fatto già così. Non vedo quale impegno, bravura o merito ci sia da parte mia.
Che poi questo porta anche risultati è solo una conseguenza. Io credo che quando uno non ostenta, non rinfaccia e non è superbio sicuramente piace di più all’interlocutore il quale non apprezzerà mai un superbio o un arrogante. Io non lo sono perché non lo sono mai stato. Non fa parte di me».
È stato un lungo cammino quello che ripercorro con Michele Piccolo in questa conversazione che abbiamo deciso di videoregistrare. Lui è davanti all’obiettivo a cercare le risposte, io dietro a porgli le mie domande. La sagoma del monte Somma è alle mie spalle, oltre i vetri del balcone nella stanza più grande della sua abitazione privata che sembra una sentinella posta nel cuore dell’azienda da dove tutto ebbe inizio. Non c’è notte, tranne quando si viaggia, nella quale colui che tutto questo mise in piedi non la trascorra qui.
Per fortuna, il pomeriggio dell’intervista che registriamo riesce a dare bagliori di luce più nitida ai ricordi, e persino al monte Somma, che aiutano a capire. A capire, per esempio (come diceva un libro/romanzo che ho molto amato dal titolo La solitudine dei numeri primi) in quanti e quali modi i numeri primi possono vivere la loro solitudine pur avendo decine di persone attorno.
Non che Michele Piccolo si senta un numero uno, e quindi primo, poiché nella logica del buon senso e di chi ama la concretezza dire di essere il numero uno o primo è come non esserlo. Chi lo è davvero non lo dice mai e forse nemmeno ha l’occasione di pensarlo. Chi dice di esserlo non lo è. È un pensiero che condivido da quando faccio il giornalista.
Ho avuto davanti a me in questi anni, nel corso di interviste per inchieste che sono stati libri e molto altro, scienziati di fama, filosofi, studiosi eminenti, teologi, politici noti, personaggi, testimoni famosi del nostro tempo e uomini semplici: più erano noti e più erano umili. Tutte le volte che ho intervistato persone presuntuose o molto piene di sè è stato quando nessuno le riconosceva come loro si ritenevano o desideravano d’essere riconosciute.
Il caso di Michele Piccolo mi conferma la regola di sempre: le persone che non hanno bisogno di mostrare le loro supposte grandezze sono le stesse che hanno avuto ed hanno successo nella loro vita. Per questo, in fondo, esse non hanno bisogno di ostentare o di mettersi in mostra né di cercare facili elogi o, peggio, autoelogi: la loro vita la lasciano osservare agli altri. Essi hanno messo se stessi nelle cose fatte e negli accadimenti a cui hanno preso parte. La solitudine, invece, è il senso che può davvero accomunare esperienze varie ed estreme. La vive l’artista, il genio, l’imprenditore, il coraggioso.
La vive spesso l’uomo corretto, quello controcorrente ma anche quello che latita. La vive l’inquieta, l’asceta, l’errabondo. La vive chi si trova a fare scelte importanti o chi vive situazioni difficili. La vive chi deve fare i conti con un brutto male o chi, invece, sta facendo i conti con la giustizia. La vive chi vola troppo in alto o chi ha grandi responsabilità. Quante cose potrebbero accomunare le vicende degli umani e da quante cose vengono divisi. Noi coniughiamo le stesse parole (la solitudine, il lavoro, il sogno, la pazienza, la temperanza…) eppure ciascuna si presta persino a fini e vicende opposte.
Michele Piccolo è rimasto un uomo semplice nonostante i suoi conti in banca, il suo successo professionale, il riscatto che ha potuto vivere e trovare nelle cose che ha fatto nel corso dei suoi primi sessantacinque anni. Egli è rimasto colui che considera i soldi un mezzo e non un fine tanto da reinvestire persino, e sin dal primo momento, quello che ancora non aveva: è una dote, quest’ultima, che accomuna tutti i creatori d’azienda, tutti coloro che creano le imprese dei grandi numeri trovandosi poi, inevitabilmente, anche a dover affrontare la fatica per distinguere i legami veri e disinteressati da quelli che hanno soltanto un interesse personale e che aumentano molto quando il successo ti raggiunge. Da qualche tempo si contano più quelli che sono arrivati da lui per rendergli encomi facili e mirati avendo in mente solo qualcosa da ottenere che gli altri.
In qualche momento di confronto gli ho confidato, come si fa con il migliore degli amici, un mio pensiero frequente che ogni volta assomiglia sempre di più ad una provocazione: «Quante persone tra quelle che fanno la fila qui riverrebbero da te se il tuo conto in banca fosse pari a zero?»
In quei momenti sapevo di poterlo provocare e di avere da lui anche la risposta più giusta: pacata, meditata, realista. Di chi pur notando, con intelligenza, le parole ed i comportamenti disdicevoli di persone interessate, adulatori di ogni genere che arrivano qui, fa finta di non capire, di non vedere, di non commentare. Quasi fosse il prezzo già messo in conto da chi ha attraversato segmenti sociali e professionali ed è già passato da una salumeria di un quartiere di periferia ad un’impresa, presente in varie città, i cui numeri parlano da soli.
In altre occasioni, invece, gli ho fatto notare quante volte in mezzo a quella fila di persone, assai interessata all’aspetto economico, fatta di politici, finti amici, sindaci, parenti vicini o lontani, burocrati, profittatori, adulatori, professionisti, avvocati, madri o padri di famiglia in cerca di lavoro, giovani promesse o amici di vecchia data, finanzieri, colleghi, carabinieri o poliziotti, soci, nemici dichiarati o occulti, conterranei invidiosi o maldicenti, impiegati pubblici, medici o artisti, cantanti, subrette o ballerine, impresari, vigili urbani o rappresentati, ci fossero anche persone disinteressate che nulla chiedono se non il piacere di avere un legame d’amicizia con una persona della quale, al di là dei conti in banca, hanno imparato a conoscere e a stimare le sue qualità umane.
Pensieri del genere, in certi momenti difficili, valgono più di ogni conto in banca. Lo sa bene Michele Piccolo soprattutto quando si parla di felicità o di fortuna in amore, di solitudine o di serenità: i temi di sempre con i quali ogni essere umano deve fare i conti. E mai come in questo caso per fare quei conti non serve nessun conto in banca dacché, come recitava il più popolare e saggio degli attori partenopei, Antonio De Curtis, in arte Totò, per fortuna, siamo tutti uguali davanti ai misteri della vita, alle sue inquietudini, alle sue domande, al suo epilogo finale.
È una condizione che accomuna chiunque quando ti chiedi se ci sia somiglianza tra la vita privata di un uomo d’impresa e quella più normale di un uomo comune che sa coniugare le parole più frequenti ed ignote. E ancora.
Quanto è felice un uomo d’impresa, ricco e adulato, più di un uomo comune che non può consentirsi né ricchezze né adulazione alcuna? E quanto può essere solo un uomo ricco più di un altro che tradisce povertà? E, soprattutto, quanto costa la felicità e quale sapore può avere che si possa dirla in dote a chi ha molti averi e sottratta a chi non ne ha?
Michele Piccolo sa che nessuna cosa di quelle che ha avuto la meritava più di altri e forse è questo il grande fondo di quella umiltà che gli è rimasta dentro. O forse è altro.
Sarà che per rispondere a certe domande dovremmo scavare molto a fondo. Nell’intervista videoregistrata, tuttavia, non ho taciuto nulla delle mie curiosità ma ho compreso anche che certe risposte arrivano col tempo e non possono fare nemmeno capolino sopra le pagine di un libro quando quelle risposte non hanno parole che possano esprimerle.
La trama portante per raccontare l’entusiasmo e la tenacia di chi ha fatto nascere i supermercati Piccolo sta tutta lì: nel prezzo da pagare con la vita privata quando dedichi al lavoro, con gioia, tutto il tempo, i giorni, le festività, le vacanze, gli incontri, i viaggi, gli entusiasmi che puoi avere; nella idea molto concreta di considerare e vedere la propria famiglia non solo nei legami di sangue che la vita ti ha dato ma anche, e davvero, nel gruppo di lavoro che partecipa all’evoluzione dell’azienda e al suo sviluppo; nella vitalità che si rappresenta in ogni cosa fatta senza mai risparmiarsi. Facendo tutto con grande gioia anche quando potresti avere reazioni non controllate davanti a certi accadimenti improvvisi che ti mettono alla prova; davanti alla notizia, per esempio, che il fisco ti chiede, mentre sei seduto ad una scrivania di un ufficio delle Agenzie delle Entrate, esborsi che assomigliano a tangenti; o quando ti accorgi che lo Stato e l’antistato possono darti le stesse insidie, minacciare la solidità dell’impresa che hai messo al mondo e la sua occupazione, farti andare a letto la sera tardi con quei «pensieri» che, prima o poi, devi affrontare.

È come se il ragazzino della Starza, che era nella salumeria di via Piccioli, quartiere periferico di Sant’Anastasia, nella provincia di Napoli, fosse rimasto tale nonostante gli anni passanti. Sarà perché la sua mente, la sua vitalità è rimasta giovane. Animata dalla stessa voglia di capire, sperimentare nuovi orizzonti di lavoro, considerare gli altri nel modo migliore che si possa fare.