Nel 2016 uno studio della Bocconi di Milano metteva nero su bianco i risultati di una ricerca condotta con diversi brand della grande distribuzione alimentare (e non solo). Si voleva capire come e perché la musica nei negozi (come nei supermercati) influisce così profondamente nell’esperienza acquisti del cliente. E il dato, come sarà poi evidenziato, è di quelli che contano. Del resto, “nulla di nuovo sotto il sole” dagli Stati Uniti alle altre parti di quel mondo occidentale per le quali le vendite restano pur sempre un’esperienza complessa dove mente e cuore intercettano pezzi di noi. Di quel che siamo. Di ciò che vogliamo mangiare, vestire, avere. Di tutti i desideri che ci stanno attorno. Senza dimenticare che prima di diventare un argomento di studio, la musica è la più invisibile delle persuasioni che si possano essere.


Erano più o meno venti anni fa’ quando, nel mondopiccolo, per volere del suo fondatore, Michele Piccolo, si faceva entrare in azienda un deegay che fino ad allora aveva fatto lo speaker in radio private e che nulla, apparentemente, poteva fare davanti ad un microfono collocato dietro ad un box informazione di un supermercato. E, invece, già allora camminava veloce l’dea, ancora poco diffusa, che musica e parole potessero aiutare l’esperienza d’acquisto dei clienti di un supermercato, di quel fare comunità valorizzando l’idea embrionale di una radio/store. Un progetto che si muoveva, per intero, attorno ad alcune curiosità: è possibile influenzare la propensione alla spesa dei clienti solo grazie alla musica di sottofondo? E anche. È possibile influenzare le scelte di specifici prodotti scegliendo la musica e le parole giuste? Così nel giro di pochi anni quelle domande diventarono le domande di tutti i brand da cui sono nati, nell’ultimo ventennio, supermercati, centri commerciali, negozi d’abbigliamento e, persino, ristoranti gourmet. Tutti a capire in quale direzione si poteva andare e quale spazio del marketing le dimensioni del “sonoro” possono avere. In effetti, correva l’anno 1982, e già Milliman aveva sostenuto che l’utilizzo di ritmi lenti portasse a un aumento del 38.2% nella spesa media del consumatore rispetto all’utilizzo di ritmi veloci. Così, aveva consigliato canzoni decisamente lente per “trattenere” per più tempo le persone all’interno di un negozio. Ovviamente di quale negozio si trattasse poteva cambiare l’ambito d’azione. L’esempio di un’enoteca calzava a pennello. Per loro Areni & Kim avevano rilevato, già allora, che, per esempio, la musica classica invita a scegliere vini più costosi rispetto alla musica pop.

Un percorso disseminato di osservazioni realizzate da imprese di settore (che negli anni sono cresciuti a dismisura); da emittenti radiofoniche che, intanto, hanno diffuso decine di pubblicità per negozio di ogni genere; da esperti di settore e, persino, da università blasonate. La ricerca della Bocconi, arrivata nel 2016, ha avuto il pregio di raccogliere tutte le esperienze concrete, di almeno 40 anni, durante dai quali negozi più locali alle multinazionali, alla Grande Distribuzione, hanno potuto fare un lungo cammino e si sono affermate, nel costume sociale, degli italiani. Così nello studio della Bocconi si legge, per esempio, che “le radio in store possono incidere positivamente sulle vendite di un centro commerciale o di una boutique.” Che “la musica in negozio può incrementare lo scontrino medio dal 2% al 10%”. Lo aveva spiegato, rendendo pubblici i risultati della ricerca, Andrea Ordanini, direttore del dipartimento di marketing dell’università Bocconi di Milano e lui stesso autore di una ricerca sull’uso della radio in-store in Italia. Numeri e dati che si fecero prova/provata al convincimento che “se si applicano gli effetti di una radio in-store ai volumi di affari di un supermercato, di una catena in franchising o di un grande centro commerciale, gli incassi diventano significativi.” Anche per questo, in fondo, l’idea di usare la musica in negozio è diventata, negli ultimi anni, un cardine del marketing entrando tra i suoi elementi strategici. Tuttavia – come pure ricordava Ordanini – “non basta più attaccare il plugin alla radio e mandare in filodiffusione la stazione si ascolta dietro il bancone o far girare due cd a ripetizione”.

La ricerca della Bocconi aveva analizzato 292 catene di distribuzione con più di 30 punti di vendita in Italia. “Un esame – dettagliò Ordanini – dentro il quale è emerso che il 54% ha una radio in store”. Nel settore alimentare con la percentuale dell’86%, nel commercio del 72%, mentre era, appena sette anni fa, del tutto assente nei negozi di telefonia. “I principali ostacoli all’utilizzo sembrano prevalentemente tecnologici – scrivevano i ricercatori -. Costi elevati sono segnalati dai settori retail e telco, mentre finanza e servizi indicano una limitata utilità dello strumento”. Il discorso dei costi entrava nel pieno del dibattito per chi pur riconoscendo il vantaggio di un maggiore guadagno si domandava a quale prezzo se si considera, allora come ora, che la spesa principale nell’uso di musica in negozi resta quella dei diritti d’autore. Il rimando alla legislazione italiana è immediato. La legge, in Italia, prevede una quota variabile a seconda dell’ampiezza del negozio, della tipologia di merce e del numero di altoparlanti. Ma – notava anche Ordanini – “la legislazione andrebbe ripensata.”

Intanto, il convincimento che la musica può aumentare gli acquisti in un negozio/supermercato è un dato condiviso. Aumenta il tempo di permanenza se la canzone è quella giusta e induce, per questo, a fermarsi qualche minuto in più in quel negozio/supermercato. E, così, trascorrendo più tempo tra gli scaffali, saranno maggiori le possibilità di comprare altre cose. Il dato era venuto fuori anche da una delle domande della ricerca realizzata dalla Bocconi nel corso della quale i clienti presi in esame avevano definito la radio in uno store quel sottofondo “piacevole” ed “importante”, che rende “più bello fare acquisti”. Restava e resta un obiettivo, anche della ricerca Bocconi, capire quali canzoni e quale musica possa essere quella giusta anche a seconda del settore nel quale la si usa per non finire, come nel food, dove qualcuno aveva mosso critiche alla presenza di una radio tale da inserirlo tra gli elementi di disturbo. Un’ombra per la quale era stata chiamata in causa Mood Media, una società che realizza tra le altre cose radio in-store, per lanciare una sorta di juke box interattivo. Si entrava in negozio, ci si collegava con lo smartphone all’archivio di brano e si sceglieva il proprio brano preferito componendo così una classifica di brani che venivano trasmessi in diretta mentre il cliente era ancora nello store.

Oggi il marketing “sonoro” ha fatto ulteriori passi avanti e nulla nei supermercati può più essere lasciato al caso. Dal volume al tipo di musica, dal palinsesto al momento della giornata, dai contenuti alla cadenza di successione il team di lavoro, nel mondopiccolo, si sta mettendo all’opera per fornire all’esperienza cliente un modo ulteriore d’attenzione e di supporto affinché ogni acquisto possa essere un acquisto consapevole. Sul tavolo si raccolgono dati ed idee, la volontà di un’azienda che si rese antesignana quando ancora in pochi parlavano di musica e parole nei punti vendita.